C’era una volta in Buthan: la recensione

Da oggi, 1 Maggio, sarà disponibile nelle sale “C’era una volta in Buthan”, una distribuzione Roadside Attractions, e che vede al timone Pawo Choyning Dorji, che nel 2021 si è guadagnato una nomination agli oscar per il suo film Lunana: A Yak in the Classroom. C’era una volta in Buthan, dal titolo originale “The Monk and the Gun”, racconta l’avvento della moderna democrazia nelle remote terre del Buthan, regno buddhista dell’Himalaya orientale. La narrazione ha note tipiche del dramedy, rasentando in certi punti quasi una parodistica rappresentazione della democrazia moderna.

La Trama

La storia è ambientata nel 2006, momento in cui il Re decide di abdicare dando la possibilità al Buthan di eleggere il proprio leader tramite il voto. Tutti i cittadini si ritrovano a dover imparare cosa sia una vera e propria democrazia, in quanto non è mai stata presente nel regno del Bhutan fino a quel momento. Il film racconta di come siano state organizzare delle elezioni di prova, in modo tale da insegnare ai cittadini quali sono i loro diritti e doveri.

Sulla scia di questa narrazione troviamo la storia principale del film in cui il vecchio Lama di un piccolo villaggio di nome Ura esprime la sua preoccupazione per questo cambiamento. I suoi timori riguardano il passo indietro del Re e il cedere potere al popolo: chiede al suo discepolo, Tashi, di aiutarlo in un rituale per “fare le cose per bene”. Il compito di Tashi è quello di trovare due armi, da portare entro quattro giorni, momento in cui avverranno il rituale e le elezioni simulate.

Durante tutto l’arco del film Tashi non si domanda a cosa servano le armi, fidandosi completamente del Lama. Qui si aggiunge una nota thriller, che appare smorzata da tutte le sotto trame presenti nel lungometraggio.

Un film con diversi archi narrativi

C’era una volta in Bhutan è stato descritto come un mosaico, proprio perché sono presenti diversi personaggi con diversi archi narrativi (anche se il principale rimane comunque quello di Tashi). Le due linee narrative più interessanti sono, per l’appunto, quella di Tashi e quella di Roy, un americano arrivato in Bhutan per appropriarsi di un antico fucile d’epoca.

I toni usati sono diversi e opposti, quasi a rimarcare il gap non solo culturale ma anche umano fra Paesi come la democratica America e il povero ma pacifico Regno del Bhutan. I due personaggi non solo non parlano la stessa lingua, ma sembrano venire da due pianeti diversi e lontanissimi l’uno dall’altro: un po’ per i loro abiti, tipici per la rispettiva cultura, un po’ per i loro ideali.

Se da una parte Tashi incarna perfettamente l’idea del monaco buddista fedele al suo Lama, dall’altra Roy è il tipico americano che sembra affidare ogni suo successo a una valigia piena di soldi, che però in Bhutan vale meno di zero. Ciò che diverte, infatti, è come il proprietario del fucile prima assecondi Roy, decidendo di cedergli l’arma per un prezzo irrisorio, e poi decida di darla a Tashi, perché “è stato il Lama a chiederla”. Questo mostra quale sia l’idea dietro una società povera ma e ingenua come quella del Bhutan.

Le elezioni simulate e il dubbio verso la democrazia

L’arco narrativo della rappresentante del governo a Ura mostra chiaramente quale fosse il sentimento degli abitanti del villaggio nei confronti dell’abdicazione del re. Sebbene da molti è stato visto come un regalo, ci sono delle persone che non sanno nemmeno cosa voglia dire vivere in una democrazia e molte persone si soffermano più sull’arrivo di beni materiali come la televisione che sul comprendere cosa significhi questo per il loro Paese.

Dorji mostra in chiave ironica e parodistica come gli abitanti facciano fatica a capire persino gli schieramenti e, durante una scena in cui un rappresentante del governo mostra loro come esultare per il proprio leader, alzando la voce e arrabbiandosi contro i sostenitori di un’altra fazione, sono emblematiche le parole che un’anziana signora: “Noi non siamo così. Perché volete farci diventare maleducati?”

Dorji ha espresso in poche parole il dubbio, verosimile, verso la democrazia: il suo continuo accostarla all’idea dell’America è anche un modo per chiedersi se sia davvero vantaggioso abbandonare una monarchia antica.

Un cinema rurale, crudo e soporifero

Tutti gli ambienti presentati nel film sono estremamente reali, quasi Dorji non volesse lasciare possibilità di immaginazione agli spettatori. Gli abitanti del Bhutan ci vengono presentati così come sono, con i loro abiti modesti e le loro case altrettanto semplici. Molte volte si prova tenerezza verso un popolo che è stato iniziato alla tecnologia: ci sono molte scene in cui le persone si affollano nelle case di chi ha una televisione oppure nell’unico bar in cui è possibile non solo vedere un film ma anche bere “l’acqua nera”, come la chiama Tashi, o una coca cola, come la definiscono gli occidentali.

Dal punto di vista registico Dorji rimane semplice: non ci sono movimenti di macchina articolati, così come non ci sono tagli estremamente emotivi. Tutto segue una linea calma e pacata, che viene mantenuta per tutto il film, come se fossimo all’interno di una fiaba. Molto spesso ci troviamo a guardare dei campi larghi in cui il personaggio cammina e basta, mentre la macchina da presa è immobile. Dorji ha trovato un modo non solo per mantenere il tono del film “sempre uguale”, ma anche per mostrare attraverso la tecnica la verità sul popolo del Bhutan: non vogliono un cambiamento.

I colori sono caldi e la luce naturale sembra essere padrona di ogni inquadratura. Non ci sono scelte stilistiche complicate e, forse, è proprio alla naturalezza che il regista puntava, anche se, in alcuni punti, si fatica a mantenere l’attenzione. C’era una volta in Bhutan è un film lungo, lento e dal tono soporifero, sicuramente una chicca per gli amanti del genere.

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